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Obbligazioni subordinate, un rischio da prendere con cognizione di causa
Non accenna a placarsi la polemica sul salvataggio dei quattro istituti di credito italiani in crisi effettuato dal Governo con il cosiddetto decreto “salvabanche”.
Una soluzione che se da un lato ha tutelato conti correnti, depositi ed obbligazioni ordinarie, oltre ovviamente ai posti di lavoro, dall’altro ha messo in serie difficoltà, in alcuni casi gettandoli sul lastrico, circa 12.500 risparmiatori che avevano sottoscritto obbligazioni subordinate. In molti ne avevano ignorato l’esistenza fino ad ora e/o magari hanno addirittura scoperto di averle sottoscritte correndo in banca allarmati a chiedere chiarimenti.
Ma cosa sono le obbligazioni subordinate? Sono titoli di debito, spesso denominate “junior” per distinguerle da quelle non subordinate dette “senior”, il cui rimborso, in caso di liquidazione o fallimento dell’emittente, avviene successivamente a quello dei creditori ordinari. Si tratta quindi di titoli con rischio più elevato rispetto a quello delle obbligazioni ordinarie e caratterizzate pertanto da maggior rendimento, con interessi incassati periodicamente sottoforma di dividendi o di cedole. Anche in caso di andamento normale dell’attività della banca, comunque, quando le obbligazioni arrivano a scadenza, il loro rimborso è subordinato ad autorizzazione da parte di Bankitalia.
Non sono considerati strumenti di debito tradizionale, insomma, ma rappresentano, di fatto, un’alternativa al più costoso collocamento di azioni e proprio come tali, se la banca è insolvente o fallisce, questi strumenti possono essere azzerati e perdono il loro valore, com’è successo nel caso delle quattro banche salvate dal Governo. Se un istituto di credito gode di ottima salute con previsione a lungo termine, sottoscrivere obbligazioni subordinate può anche essere una scelta azzeccata, ma va fatta con la consapevolezza dei possibili rischi, seppur remoti. Le obbligazioni subordinate sono infatti difficili da valutare, in particolar modo se è incerta la data di rimborso del capitale (“extension risk”). Molte di esse, infatti, non hanno una vera e propria scadenza, ma prevedono la possibilità di essere richiamate dall’emittente con la cosiddetta opzione “call”, da esercitare a partire da una certa data. L’assenza di scadenza rende molto complicato ipotizzare il rendimento dell’investimento, visto che non si conosce con certezza il suo termine.